Terapeuti ai tempi del Covid

Riflessioni ed esperienze dei e tra terapeuti dell’Istituto Reich.

Certamente questa pandemia sta lasciando segni incisi nella vita di tutti noi; segni di cui forse ancora ne dobbiamo vedere gli effetti. Penso soprattutto agli effetti sui bambini, privati per un tempo per loro infinito di preziose esperienze sociali, ma anche a tutti quei bambini adulti che siamo noi.

Il linguaggio dei media, che poi è sempre un nostro prodotto, ha contribuito significativamente a colorare a tinte ancora più forti, come se ce ne fosse stato bisogno, la nostra angoscia di prossimità e di contatto con l’altro, coniando termini come “distanziamento sociale”, che induce uno iato nelle relazioni proprio nel momento in cui sarebbe stata necessaria vicinanza e solidarietà sociale e , soprattutto, affettiva. Abbiamo compensato e surrogato con canti collettivi dai balconi, bandiere esposte, scaramantici “andrà tutto bene” (andate a raccontarlo a chi ha perso persone care).

Il virus è il nemico invisibile da combattere in una guerra senza confini e territori:  immagine e somiglianza della nostra modernità post-liquida. Abbiamo speso molte meno energie per comprendere i vissuti profondi che tutto questo ha elicitato in ciascuno di noi.

Il virus è arrivato come uno tsunami, un terremoto. A questo proposito risuonano le parole di un nostro allievo, che un terremoto devastante lo ha vissuto in prima persona. Parlando della quarantena ci dice: “almeno adesso una casa sopra la testa ce l’ho”; oppure, parlando  sempre della quarantena con colleghe della penisola balcanica,  a proposito del fatto che per la nostra generazione questa rappresentava un evento mai vissuto, mi ricordavano semplicemente come loro chiuse in casa in quarantena c’erano state da bambine, e per lungo tempo, con la paura di mettere il naso fuori dall’uscio  per il pericolo di essere uccise, rapite, violentate durante quella guerra assurda a due passi da noi.

In fondo pensiamo sempre di essere il centro del mondo e una pandemia ci costringe ad allargare il nostro orizzonte.

Ha costretto ad ampliarlo anche a noi terapeuti.

In un primo momento ci siamo goduti il riposo imposto (ci voleva il Covid per farci rallentare un po’?).

I nostri giardini, per chi ha la fortuna di averlo, si sono popolati di uccelli mai visti prima in zona e il silenzio regnava sovrano.

Subito dopo la domanda: “Come facciamo con i nostri pazienti?”; “come possiamo fare, specialmente noi psicocorporei?”

L’orizzonte si è aperto sul mondo virtuale, sul lavoro da remoto.  Una modalità, almeno personalmente, rifiutata fino a qualche tempo prima ed ora accettata ob torto collo.

Una modalità che inizialmente abbiamo ritenuto opportuna solo per mantenere un filo di contatto con i pazienti, sicuri che  presto avremmo visto nuovamente in presenza come al solito.

Mentre il tempo passava lentamente, altrettanto lentamente il lavoro attraverso Skype diveniva sempre più interessante: iniziavano a svilupparsi nuovi occhi dietro uno schermo diverso da quello usuale delle nostre ordinare nevrosi

Confrontandoci all’interno dell’Istituto Reich sono emerse diverse cose interessanti, in primis il setting.

Il setting è il “luogo sacro” della terapia; quel luogo che, seppur fisicamente uguale in tutti gli incontri, assume colori, connotazioni, odori, vicinanze uniche con ogni persona.

Quel luogo organizzato da noi per poter accogliere in maniera appropriata i nostri pazienti e in cui creare insieme un “campo”, che diviene improvvisamente altro.  Diviene un setting co-costruito con il paziente in maniera ancora più potente. Attraverso lo schermo entriamo nell’intimità dello spazio fisico dei pazienti, nelle loro case. Vediamo particolari, arredi, colori che forse ci eravamo immaginati dai loro vissuti, sensazioni, emozioni. Noi portiamo la nostra parte di setting, per me e per i miei colleghi era sempre lo studio che conoscevano ma comunque visto da una prospettiva diversa, loro ci offrivano la loro finestra aperta sulle loro vite quotidiane.  Un primo compito era quindi quello di ricucire insieme quello spazio virtuale dietro lo schermo di ciascuno e creare comunque il campo e per far questo è occorso un lavoro di pulizia con noi stessi. Il mandato era quello di trovare uno spazio costante, intimo, privo di interferenze,   dove si potessero sentire nel luogo sicuro. Non per tutti è stato possibile.

Alcuni avevano i figli a casa per tutto il tempo ed era impossibile ricavare uno spazio intimo; oppure avevano situazioni altamente conflittuali in casa, ed era proprio quello il motivo che li aveva portati in terapia. Un giovane paziente si collegava via Skype dall’auto parcheggiata fuori casa perché viveva con la compagna con cui era in crisi, lo stesso accadde per una giovane coppia che una volta si era dovuta appartare in macchina perché la casa era stata invasa dai parenti. Nell’esperienza di una nostra collega che lavora in una struttura pubblica sono stati molti a collegarsi dall’auto, anche solo telefonicamente.  “Una telefonata ti allunga la vita” recitava un vecchio spot pubblicitario, in questo caso l’allargava un po’, gli restituiva un respiro più ampio.

Anche noi terapeuti abbiamo sentito il bisogno di centrarci più del solito e di respirare prima di ogni teleseduta.

Poco meno della metà dei nostri pazienti non ha potuto o voluto proseguire la terapia da remoto con l’intento di riprendere in presenza appena le condizioni lo avrebbero consentito; alcuni, oltre alle difficoltà prima citate non avevano neppure una connessione internet.

Con alcuni di loro abbiamo mantenuto un filo telefonico e cercato di aiutarli a comprende quanto ci fosse di difficoltà reale e oggettiva e quanta parte fosse dinamica.

L’altra domanda che ci siamo posti era: “..e il gruppo?”.

Le dimensioni delle nostre strutture non ci hanno consentito di proseguire gli incontri di gruppo, neppure lavorando esclusivamente a livello verbale come avevamo pensato.  Per inciso; pensiamo che anche una terapia verbale, condotta con una visione e un assetto includente e integrante tutti i piani della persona, della relazione e del campo che si crea nell’incontro sia una terapia psicocorporea.

Nelle terapie individuali da remoto abbiamo lavorato molto sulla sospensione del gruppo, sulle loro difficoltà, rabbia, delusione, anche verso noi terapeuti, ma anche sul sentirsi sollevato, esentato, liberato di qualcuno di loro.

Tra noi abbiamo lavorato in supervisione, ovviamente da remoto. Come Istituto abbiamo da tempo formalizzato una supervisione periodica con un supervisore esterno e in questo periodo anche la nuova modalità operativa della supervisione è stata oggetto di confronto in questo ambito.

Sia io che Francesca lavoriamo a nostra volta anche come supervisori per due diversi gruppi di operatori e abbiamo visto che in fondo questa modalità poteva essere sostenibile, anche se ovviamente è preferibile quella in presenza. Usare una piattaforma protetta per fare supervisioni online ci consente di raggiungere persone che vivono e operano lontano da noi e abbiamo pensato che questo è uno strumento che potremmo sviluppare anche successivamente.

Stessa cosa per le formazioni.

Inizialmente abbiamo sospeso i corsi, salvo riprenderli poco dopo da remoto.

Abbiamo dovuto rivedere i programmi, smontandoli e riassemblandoli per le nuove condizioni, svolgendo da remoto essenzialmente le parti teoriche. Con il procedere degli incontri siamo riusciti anche ad inserire dei piccoli momenti di autocontatto e centratura e ci siamo stupefatti di come il clima caldo e partecipe degli incontri in presenza pre-Covid si sia mantenuto, se non amplificato dal desiderio di incontrarci comunque.

Terminata la fase acuta abbiamo avuto la possibilità di fare lezione nel nostro giardino di casa, distribuendoci a distanza di sicurezza. Abbiamo fatto lezioni in presenza, a distanza e con grande vicinanza affettiva.

Terminata la fase più restrittiva abbiamo ripreso le sedute individuali in presenza.

Pressoché tutti sono tornati e hanno ripreso il percorso terapeutico. Un paio stanno ancora preferendo, tra resistenze e oggettive difficoltà, le sedute online.

Come scrivevo inizialmente, il Covid ha lasciato un segno inciso, ma se mi guardo attorno e un po’ avanti e indietro nella dimensione temporale penso sempre che la nostra generazione e il luogo dove ci troviamo, parlo di quella europea nata tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso, sia proprio fortunata: abbiamo smarcato una guerra mondiale  per pochi anni, abbiamo vissuto sulle ali di un boom economico, i ruoli genitoriali erano così definiti e rigidi che abbiamo potuto contestarli anche duramente, abbiamo ascoltato e suonato musica irripetibile ( personalmente questo è stato  un particolare salvifico non da poco). Tutto ciò ci ha contribuito a costruire dentro di noi una base sicura che ci ha consentito di attraversare momenti difficili. Attraverseremo anche il Covid.

Abbiamo anche e comunque la responsabilità di aver costruito questo modello di società post-moderna che a sua volta ha generato un degrado del pianeta e di noi tutti viventi che lo abitiamo mai visto prima d’ora.

Il Covid per un breve periodo ci ha fatto rallentare, avere un po’ più di attenzione a ciò che accade anche intorno a noi e non solo a noi stessi. Almeno non perdiamo questo insegnamento.

Grazie ad Anna, Francesca e Laura, in rigoroso ordine alfabetico, per il contributo a questo articolo e alla vita dell’Istituto Reich.

Fabio Carbonari

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